Mestieri del Cinema – intervista alla regista Giulia Grandinetti
Abbiamo avuto il piacere di parlare con Giulia Grandinetti, talentuosa regista e sceneggiatrice marchigiana, che ha costruito una carriera brillante attraverso un percorso artistico che abbraccia danza, recitazione e cinema. Giulia ha esordito con il lungometraggio “Alice and the Land that Wonders” e ha realizzato cortometraggi come “Guinea Pig”, “Greenwater” e “Tria”. Il mese scorso, il suo ultimo cortometraggio intitolato Majonezë ha vinto il premio per il miglior cortometraggio del Panorama Italia alla ventiduesima edizione di Alice nella Città, aggiudicandosi anche una menzione speciale per l’attrice Caterina Bagnulo. Il corto è prodotto da Riccardo Neri e Vincenzo Filippo (Lupin Film), da Giulia Grandinetti, affiancati dalle produzioni associate di Natasha Markou (London Production Studios) e di Parisa Ghasemi e Ashkan Nematian (Close Film) e distribuito da Flavio Armone di Lights On.
La provenienza dal mondo della danza ha influenzato l’attenzione che poni a questa dimensione corporea nei tuoi lavori che sembra trascendere la materialità? È anche per questa tua capacità di dialogare in diverse dimensioni che il corpo sembra assumere una vita propria, una propria dimensione?
Hai toccato un punto fondamentale. La danza è il mio punto di partenza, un mondo che non ho mai abbandonato, anche se non la pratico più come danzatrice professionista. Resta, però, alla base del mio lavoro e guida il mio approccio alla regia. Non si tratta solo di un lavoro, ma di un’espressione che coinvolge tutto. Quello che mi affascina della danza, soprattutto nel cinema, è il rapporto tra il corpo e lo spazio, tra i corpi stessi e gli spazi che generiamo. Il cinema crea un proprio spazio con regole che non devono necessariamente riflettere quelle della realtà e questo richiede la costruzione di una geografia percettiva. Non so se la danza abbia influenzato il mio modo di fare cinema o se il cinema mi abbia riportato alla danza, ma sicuramente parto dai corpi per generare spazi e relazioni. Il mondo dell’attore è essenzialmente fatto di relazioni corporee, che si traducono poi in voce e parola.
Infatti, nei tuoi film emerge una forte attenzione al rapporto tra i volumi, lo spazio e i materiali. In un’epoca in cui la fisicità è così filtrata e mediatizzata, il tuo cinema sembra quasi un atto rivoluzionario dove la fisicità diventa tangibile. Cosa ne pensi?
Grazie per l’osservazione. Sì, credo che ci si dimentichi spesso della tensione fisica nel cinema, qualcosa che ho riscoperto studiando all’università, anche se non ho mai studiato regia in modo tradizionale. Ho esplorato il cinema autonomamente, ponendomi domande e cercando risposte attraverso la pratica e le persone che ho incontrato. La tensione fisica che si esprime nelle relazioni tra corpi e spazi è ciò che rende vivo un film. Quando un’opera genera una fisicità propria e instaura un rapporto con lo spettatore, accade qualcosa di speciale. La storia è importante certo, ma è solo uno degli elementi per creare un film che generi relazioni. La scelta dell’inquadratura, del movimento di macchina, la distanza o la vicinanza dal soggetto, tutto questo crea una relazione fisica tra lo spettatore e il film. Il corpo dell’attore diventa il veicolo di questa relazione.
Nei tuoi lavori si percepisce una stratificazione di immagini e significati. Sembra che tu non voglia farti imprigionare dalla rigidità della trama, creando più livelli che sedimentano lentamente nello spettatore. Qual è il processo creativo che ti porta a questo approccio? Pensi che renda la tua narrazione più universale o personale?
Rispondere non è facile, perché siamo sempre vittime dell’autodefinizione e i film sono un po’ come uno specchio con cui ci conosciamo meglio. Agisco molto d’istinto e sto ancora scoprendo come mi piace arrivare a fare ciò che faccio. Non ho ancora realizzato molti film, quindi è tutto in evoluzione. Detto ciò, non c’è una precisa intenzionalità legata esclusivamente al cinema, è più un mio modo di approcciarmi alla comunicazione in generale. Mi piace pensare che un film debba essere un regalo non imposto, lasciando allo spettatore la libertà di accettarlo o meno. Costruisco film su più livelli, in modo che ognuno possa scegliere quanto scavare in profondità a seconda del momento che sta attraversando. Un film può essere intrattenimento o diventare un pretesto per un’analisi personale. Questa stratificazione permette di creare un equilibrio tra il personale e l’universale; da un lato, riflette me stessa, dall’altro, offre uno spazio in cui lo spettatore può ritrovarsi.
Questi diversi livelli di significato sono evidenti nel tuo cortometraggio “Tria”. La storia universale del tradimento colpisce profondamente lo spettatore, ma c’è anche una dimensione personale che emerge. Come hai sviluppato questo legame tra il tema del tradimento e la tua esperienza personale?
“Tria”, in realtà, nasce da un momento in cui mi sono chiesta: “Cos’è davvero questo sentimento del tradimento?”. Infatti, il titolo completo è “Tria – del sentimento del tradire”. È un’indagine sul tradimento come emozione complessa. Come dice Umberto Galimberti, gli esseri umani nascono con istinti ed emozioni, ma i sentimenti si imparano. Sentimenti come l’amore e la fiducia vanno appresi e coltivati, mentre altri, come il tradimento, li subiamo e fatichiamo ad elaborarli. Nel cortometraggio, esploro il tradimento in diverse forme, come il tradimento verso sé stessi, quello della società che fallisce nel tentativo di proteggerci, il tradimento di Dio e quello della famiglia che decide di sottostare e accettare questa realtà distopica. Poi c’è un tradimento ancora più grande, quello della natura, attraverso la figura dell’uccellino, che simboleggia il conflitto tra l’uomo e la natura, soprattutto nei momenti di paura e sopravvivenza.
Questo ci ricorda che, nonostante i nostri tentativi di controllare il destino, esiste sempre qualcosa di superiore che ci sfugge. La riflessione sul tradimento si intreccia con la concezione umana e la storia diventa un pretesto per esplorare l’esperienza degli immigrati, che incarnano perfettamente per me questo sentimento di tradimento nella nostra società. Il titolo che significa “tre” in greco evoca i toni della tragedia classica, con l’idea di dèi imperfetti e conflittuali e il mito di Troia, città simbolo per eccellenza del tradimento.
Nel corto “Guinea Pig” e nei mondi distopici che crei, sembra che non ci sia solo un intento distruttivo o negativo, ma piuttosto un riflesso che cerca di preservare ed esaltare la bellezza di ciò che ci rimane. È come se il cinema fosse una sorta di archivio che mira a conservare il bello del presente, spesso con una vena ironica e dissacrante. Ti ritrovi in questa narrazione che, per antitesi, propone un punto di rinascita anziché di caduta?
Sì, esattamente. Spesso associamo la distopia alla tecnologia o a un futuro distruttivo, una prospettiva negativa. Per quanto mi consideri un’ottimista, in realtà credo piucchealtro nel valore di ciò che facciamo e nella possibilità di migliorare attraverso le nostre scelte. Il mondo di oggi, pur non essendo accogliente su alcuni aspetti, è estremamente stimolante. La distopia per me è un’occasione per riflettere sul presente e sull’ironia di un’epoca paradossale. Ridere di ciò che non va, non significa trattare le cose con superficialità, ma creare empatia e accogliere la responsabilità di ciò che è davvero problematico. Per esempio, “Guinea Pig” è stato scritto prima del Covid, ma è uscito durante la quarantena, riflettendo un momento distopico che abbiamo vissuto. Qui i personaggi non si toccano mai e gli unici momenti di contatto avvengono in un’atmosfera già carica di emozioni. Il corto si muove in questa direzione, sperando di arrivare a una rinascita emotiva. Le immagini finali dell’archivio mostrano quanto sia cambiato il nostro rapporto evidenziando la necessità di riflessione su ciò che stiamo perdendo. Questo mi porta a credere che possiamo prendere delle decisioni consapevoli anche in un contesto distopico.
Questa riflessione sui rapporti presente anche in “Majonezë”, in cui il bianco e il nero si colorano d’oro, come se stessi attuando una rivoluzione col tuo cinema attraverso il simbolismo e le emozioni, rompendo la staticità della distopia. È corretto dire che, nel grigiore della distopia, il tuo cinema cerca di portare questa trasformazione rivoluzionaria?
“Guinea Pig”, “Tria” e “Majonezë” formano una trilogia dove “Majonezë” è stato il primo progetto a cui mi sono dedicata insieme ad Andrea Benjamin Manenti, ispirandoci ad una rielaborazione della storia di Romeo e Giulietta ambientata nei Balcani. Dopo una pausa per lavorare ad altri progetti (“Guinea Pig” e “Tria”), ho ripreso “Majonezë”, riflettendo su come le rivoluzioni servano a compiere un movimento rispetto a qualcosa di statico, in particolare il trauma. Il trauma è come una fotografia che si instaura e si fissa. Con “Majonezë”, il mio obiettivo era scardinare questi traumi e trasformarli, non dimenticarli o eliminarli. Le animazioni dorate che appaiono nelle fotografie rappresentano questa trasformazione, dove il trauma non viene eliminato, ma reinterpretato e rinvigorito. Per me, il colore oro è il simbolo di questa rivoluzione, non più il rosso del sangue e della guerra, ma l’oro della trasformazione. La distopia può sembrare lontana, ma riflette realtà presenti, come i conflitti tra albanesi e serbi. Il cinema è il mio strumento per affrontare e trasformare questi traumi, offrendo una prospettiva di cambiamento e speranza.
Il tuo cinema riesce a bilanciare un’estetica visiva e concettuale con una narrativa che esplora temi universali e umani. Come riesci a mantenere questo equilibrio tra immagine e significato?
Credo che per me sia essenziale partire sempre dall’immagine, ma non come mero elemento decorativo. Ogni cosa, che sia una scenografia o un dettaglio del costume, deve suggerire un senso più profondo, come una sorta di simbolo che il pubblico possa completare con la propria interpretazione. Per questo, studio moltissimo e scelgo con attenzione i dettagli che compongono il mondo del film, cercando sempre di mettere insieme l’aspetto visivo e quello tematico in un dialogo continuo. Il cinema è fatto di simboli e ogni simbolo comunica qualcosa di più grande, basta solo saperlo osservare e integrare con il racconto che vogliamo portare sullo schermo.
La tua capacità di adattarti a diverse culture nel cinema pur mantenendo una forte identità tematica e collettiva è sorprendente, specialmente nella cura delle scenografie e dei costumi, basti pensare a “Tria” e “Majonezë”. Come riesci a mantenere un equilibrio tra l’universalità dei temi e il rispetto per le specificità culturali?
Non lasciando nulla al caso, studio tantissimo e scelgo attentamente la mia troupe. Lavoro da tempo con persone di fiducia e altri che cambio a seconda delle esigenze artistiche, come è capitato ad esempio con i miei direttori della fotografia. Questo approccio mi permette di mantenere un fil rouge tra i miei progetti, nonostante i cambiamenti. La chiave è la sinergia che instauro con le persone con cui collaboro. Cerco di far comprendere la profondità del mio lavoro e condividere al massimo la mia ricerca. La mia esperienza come performer mi ha insegnato a contestualizzare gli oggetti e i costumi, osservandoli senza pregiudizi. Ad esempio, un oggetto può suggerire significati diversi a seconda del contesto in cui si trova, un po’ come Duchamp faceva con i suoi ready-made. Questo mi permette di esplorare simboli e significati nel cinema, dove tutto è manipolazione del significato. Anche la scelta degli attori è cruciale, non si tratta solo di talento, ma anche di specificità come il timbro vocale, la texture della pelle, l’altezza. La bellezza del cinema sta proprio in come i costumi e gli attori, posti in contesti diversi, generano intuizioni uniche. Alla fine, tutto ciò deriva dalla collaborazione e dalla comprensione reciproca tra i reparti, rendendo ogni film un risultato di un intenso lavoro di squadra.
Avendo lavorato sia come attrice che come regista, come si è evoluto il rapporto con gli attori durante le riprese? Come gestisci la loro interpretazione per raggiungere il tuo obiettivo?
Il mio percorso da attrice mi ha aiutato molto a comprendere le dinamiche interiori di chi si trova davanti alla macchina da presa. Mi piace creare un ambiente sicuro in cui gli attori possano sentirsi liberi di esplorare il loro personaggio, ma allo stesso tempo chiedo molto. Non sono una regista che spinge sull’aspetto psicologico nel senso classico, preferisco lavorare sulla verità del momento, sull’autenticità delle relazioni tra i personaggi. Ogni attore ha bisogno di un approccio diverso e alcuni personaggi richiedono un lavoro più introspettivo, mentre altri possono essere costruiti più attraverso la fisicità e il contesto. Il mio compito è quello di guidarli e di fare in modo che comprendano sempre il tipo di film che stiamo creando. In generale credo di aver instaurato sempre dei bei rapporti con tutti gli attori.
Nei tuoi film si percepisce un confine molto sottile tra realtà e dimensione onirica, creando una fusione che non cerca necessariamente risposte ma si nutre di ambiguità. Come riesci a bilanciare questa alternanza? E come credi che l’una influenzi l’altra nella costruzione della tua poetica cinematografica?
Questa è una domanda fondamentale per me. In realtà, deriva dal mio modo di vivere. Ho un’attività onirica molto intensa e da piccola confondevo spesso sogno e realtà. Ci ho messo del tempo a gestire questa cosa, ma oggi lo vedo come uno strumento utile per entrare in contatto con l’inconscio dei personaggi. Quando scrivo un personaggio, mi chiedo sempre quanto sia consapevole di ciò che lo muove e quanto, invece, agisca senza rendersene conto. Gli esseri umani sono fatti di zone di consapevolezza e inconsapevolezza, e questo mette in comunicazione la parte razionale con quella istintiva ed emotiva. A me viene naturale accedere a questa dimensione onirica, che per me è fondamentale per raccontare la verità interiore dei personaggi.
In “Majonezë”, troviamo il personaggio di Elyria che compie una rivoluzione interiore, culminante in un atto amaro ma inevitabile. Come interpreti questa tensione tra il desiderio di cambiamento e la dolorosa necessità di rompere con il passato?
Credo che la chiave risieda nell’accettazione della trasformazione. Oggi ci sentiamo spesso intrappolati in definizioni rigide di noi stessi, ignorando che la nostra natura è intrinsecamente legata al cambiamento. Accettare il dolore del cambiamento può spingerci a compiere rivoluzioni personali. Per me, la vera rivoluzione è abbracciare la trasformazione, vivere nel presente e riconoscere che ogni giorno porta novità. La vita ci cambia in modi immediati di fronte agli imprevisti e lentamente nella quotidianità, ma spesso siamo riluttanti a cambiare ciò che fa parte di noi. Questo corto è un invito a non temere le trasformazioni necessarie. Il personaggio di Elyria, il cui nome in albanese significa “libera”, non è inizialmente pronta a compiere un gesto rivoluzionario. Lo fa solo grazie all’amore e al supporto di qualcuno vicino a lei. Le nostre rivoluzioni non sono sempre frutto di una decisione solitaria; a volte, serve un aiuto esterno per intraprendere un cammino di cambiamento.
Possiamo dire che in “Majonezë ” vengono esplorati i temi dell’indipendenza femminile e le complessità del patriarcato, che influenzano i personaggi maschili e femminili?
In “Majonezë”, il patriarcato non è semplicemente il “villain” da abbattere, ma una struttura che modella sia gli uomini che le donne in modi profondamente complessi. Il padre, pur essendo il pilastro patriarcale, non è un despota. Da un lato affida a sua figlia il gregge, un ruolo di responsabilità da primogenito, quasi a riconoscerle una forza che va oltre gli stereotipi di genere. Dall’altro, quando lei sceglie di andarsene, emerge la sua incapacità di accettare che il mondo possa funzionare diversamente. È in questo scontro tra libertà e tradizione che il film rivela il suo vero nucleo: la fragilità maschile. Goran, apparentemente mosso dall’istinto, è in realtà intrappolato in un conflitto interiore tra l’amore e le aspettative di forza e controllo che gli sono state inculcate. È la generazione maschile a subire le cicatrici più profonde del patriarcato, mentre le donne, come Elyria, iniziano a spezzare queste catene. Il film, pur partendo da un’indagine sull’indipendenza femminile, si trasforma in una potente riflessione su quanto la fragilità degli uomini sia spesso il prodotto di una società che nega loro la possibilità di essere vulnerabili.
Foto di Martha BarbieriFoto di Martha Barbieri
Quali sono i tuoi prossimi progetti? Dove vorresti portare la tua ricerca artistica nei prossimi anni?
Sto preparando un lungometraggio in cui indago il tema dell’amore, anche attraverso la dimensione onirica. Si chiama “Jaune et Bleu”. Sono in fase di scrittura da due anni e mezzo e anche se sono soddisfatta della storia, sento che c’è ancora tanto da esplorare. I cortometraggi sono brevi ma potenti, quasi come delle chiacchierate con sconosciuti in cui, in 15 minuti, si condivide qualcosa di profondo senza conoscere bene l’altro. Il lungometraggio è una sfida diversa, è più simile ad una relazione intima. Mi dispiace un po’ che il corto sia visto solo come un biglietto da visita per il lungo, perché in realtà è un’opera a sé, capace di creare un’empatia incredibile in poco tempo. E proprio per questo mi piacerebbe comunque continuare a realizzare corti.
A cura di Leonardo Nicolì
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