Mestieri del Cinema – Maria Giovanna Varagona, tessitrice
L’arte della trama e dell’ordito: la Maestra d’Arte Maria Giovanna Varagona e la poesia dei fili
Per la rubrica “Mestieri di Cinema“, abbiamo incontrato Maria Giovanna Varagona: una tessitrice marchigiana che intreccia storie, tradizioni e innovazione attraverso l’arte della tessitura. In questa intervista, scopriamo il suo mondo fatto di fili, trame e una visione profonda che rende ogni suo lavoro un’opera unica.
Come è nato il tuo legame con la tessitura? Cosa ti ha affascinata di più di questo mondo?
Il mio percorso verso la tessitura è stato inaspettato. Io vengo da studi sociali e nel 1984 ho svolto una tesi sperimentale presso una comunità terapeutica. Lì ho osservato come l’artigianato fosse utilizzato per favorire il recupero degli ospiti. Questo mi ha incuriosita, perché, provenendo da una famiglia di dipendenti statali, ingegneri e insegnanti, non avevo mai avuto contatti con il mondo dell’artigianato né avrei mai immaginato che potesse diventare un mestiere. Quando ho compreso le potenzialità di questa attività, ho cercato spazi per lavorare come assistente sociale in cooperative dedicate al recupero di persone in difficoltà. Così mi sono imbattuta in un corso organizzato a Macerata da una cooperativa di genitori di ragazzi ex tossicodipendenti. Era un corso di tessitura a mano per favorire il reinserimento sociale di questi giovani. Ho deciso di partecipare e da quel momento è iniziata la mia avventura. Il corso si svolgeva in un bellissimo laboratorio all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Macerata. Lì si trovavano vecchi telai dell’Ottocento, usati un tempo dalle donne ricoverate per produrre tessuti a mano per lenzuola e tovaglie. Mi sono innamorata prima dello spazio, poi dei telai e infine del lavoro stesso. Questo corso mi ha permesso di scoprire quanto fosse affascinante la tessitura e nel 1986, insieme alla mia collega Patrizia Ginesi, abbiamo deciso di avviare la nostra attività a Macerata.
Esiste un legame con la tua storia familiare o è stata una scoperta personale?
Sebbene io sia di origine siciliana e non avessi memoria di tessitura nella mia famiglia, ho scoperto che la madre di mio padre tesseva in casa e una mia bisnonna era stata maestra di tessitura nel suo paese. Mia madre mi ha poi raccontato questa storia solo quando ho iniziato a tessere. Ricordo perfettamente che, la prima volta che ho sentito il suono della cassa del telaio battere sul tessuto, qualcosa ha risuonato profondamente dentro di me. Era come se fosse una memoria ancestrale, qualcosa che faceva parte del mio sangue.
Come hai integrato la tua formazione sociale nel lavoro di tessitrice?
Grazie alla mia esperienza come maestra d’asilo e assistente sociale, sono riuscita a creare uno spazio educativo e culturale all’interno del laboratorio. Già dagli inizi, io e Patrizia, abbiamo accolto studenti di tutte le età, soprattutto bambini delle scuole materne, elementari e medie. Nel 2009, il nostro laboratorio è stato riconosciuto dalla Regione Marche come sito museale e abbiamo sviluppato un percorso che racconta la trasformazione della fibra in filo e poi in tessuto, utilizzando strumenti tradizionali funzionanti. Questo percorso non è solo tecnico, ma anche metaforico; infatti, attraverso l’arte della tessitura e della filatura riveliamo il significato nascosto e profondo di concetti come il carattere e la relazione. Ad esempio, la fibra di lana rappresenta le persone delicate, mentre la fibra di canapa richiama personalità più forti. Ogni carattere ha bisogno di un approccio diverso per esprimere il meglio di sé, proprio come ogni fibra richiede una lavorazione specifica per diventare filo e, successivamente, tessuto. Solo l’anno scorso abbiamo accolto oltre 700 studenti per visite guidate e laboratori. È una soddisfazione immensa vedere come bambini e ragazzi comprendano l’importanza di questo lavoro attraverso il contatto diretto con le antiche tecniche.
Il laboratorio ha anche un valore storico, soprattutto per quanto riguarda la tecnica dei “liccetti”. Ci puoi raccontare qualcosa di più?
Una delle tecniche più affascinanti che insegniamo è proprio quella dei “liccetti”, per cui la regione ci riconosce come museo della tessitura. Questa tecnica testimoniata tra il 1200 e la fine del 1400 è il primo sistema di programmazione su una macchina ed è stata rappresentata in diverse opere pittoriche di artisti come Giotto, Leonardo, il Ghirlandaio e il Perugino. Un esempio è quello de “L’Ultima Cena” di Leonardo da Vinci, dove la tovaglia del cenacolo presenta motivi decorativi non dipinti o disegnati ma tessuti direttamente, fissati sull’ordito attraverso un programma ripetibile e trasferibile, quindi la prima concezione di programma. Questo sistema ha dato origine ai cartoni perforati e all’invenzione del telaio Jacquard che è il primo sistema computerizzato che poi ha portato alla rivoluzione industriale, che nasce dalle tessitorie. Inoltre, il laboratorio ospita una collezione di telai storici e oggetti legati alla tessitura. Ogni strumento racconta una storia, mostrando l’evoluzione delle tecniche e delle tecnologie nel corso dei secoli. Questo aspetto museale aggiunge un valore unico al nostro lavoro, rendendo il laboratorio un luogo dove tradizione e innovazione si incontrano.
Hai preso parte alla lavorazione del film “Itaca. Il ritorno” di Uberto Pasolini in uscita nelle sale nelle prossime settimane. Qual è stata la sfida principale nella costruzione del telaio per il film e come siete riusciti a conciliare le esigenze cinematografiche a quelle tessili?
La sfida principale è stata adattare il telaio alle esigenze scenografiche del film. Il regista voleva che fosse funzionale per la scena, ma anche facilmente manovrabile per l’attrice. Così insieme ad un artigiano locale con cui collaboro, abbiamo progettato un telaio che fosse visivamente imponente ma al tempo stesso leggero e pratico da usare. Il nostro obiettivo era quello di garantire una tessitura realistica, pur rispettando le necessità delle riprese. Abbiamo realizzato un telaio di tre metri che doveva sembrare in legno pieno, ma senza essere troppo pesante, poiché il personaggio di Ulisse avrebbe dovuto ribaltarlo in un momento di rabbia. La soluzione è stata creare una struttura vuota all’interno, con le parti finali che sembravano legno massiccio. Il risultato è stato un telaio perfetto dal punto di vista funzionale e scenografico, con grande attenzione ai dettagli e alle esigenze cinematografiche.
Come è stato insegnare ad una attrice del calibro di Juliette Binoche un’arte così complessa e delicata come la tessitura?
Dopo aver montato questo telaio negli studi di Roma, ho iniziato la formazione con Juliette, che si è rivelata una persona splendida e molto rispettosa. Le ho spiegato subito che, per imparare a tessere in modo fluido avrei avuto bisogno di 12 ore piene di pratica. Tuttavia, poiché nel frattempo si giravano anche gli esterni, in alternativa, le ho detto che avrebbe dovuto imparare a mantenere una postura elegante come una principessa mentre tesseva. Inoltre, la battuta doveva avere un ritmo regolare e la scioltezza nel lanciare la navetta era fondamentale, anche se questa si bloccava nell’ordito, che era particolarmente grande (75cm). Sono stata a Roma per circa un mese, durante le riprese e ogni giorno sul set in cui Juliette tesseva, sono stata presente per correggere e perfezionare il suo lavoro, poiché doveva tessere e allo stesso tempo interagire con gli attori.
Dopo aver contribuito alla creazione del telaio per il film “Itaca. Il ritorno”, quale è stato il motivo che ti ha spinta a volerlo destinare a un progetto museale, piuttosto che lasciarlo come semplice oggetto di scena?
L’idea che mi ha spinto a voler destinare il telaio a un progetto museale nasce dalla volontà di creare uno spazio dedicato alla tessitura nel mito, ispirato a figure mitologiche come Penelope. La mitologia è ricca di simboli legati al filo e alla tessitura, che rappresentano metafore profonde sulla vita, il destino e la creazione. Questo progetto potrebbe avvicinare soprattutto i giovani e le scuole superiori a un mondo che ha radici nella storia e nell’arte. Dopo la fine delle riprese, ho chiesto al regista se fosse possibile conservare il telaio invece di lasciarlo in un magazzino, proponendo di inserirlo all’interno di un museo. Sia il regista che Juliette Binoche sono stati entusiasti dell’idea. Grazie a un accordo con la produzione, il telaio ha completato la sua “Odissea”, trovando finalmente una collocazione nel museo di Appignano, accanto a un altro telaio del 1700. Spero di poter inaugurare questo spazio a febbraio, in occasione della presentazione di un libro di Francesca Sensini.
La tessitura, con le sue trame e nodi da sciogliere, può essere vista come una metafora della vita, con i suoi intrecci e momenti di difficoltà. Ti è mai capitato di percepire un parallelo tra il tuo lavoro e il percorso di vita, dove la tessitura diventa un momento di introspezione e ricerca di equilibrio?
Assolutamente sì, la vita è un continuo tramare. Spesso racconto agli studenti che visitano il nostro percorso “Dalla fibra al filo” che, nella vita, ognuno di noi tesse trame. Lo facciamo con i pensieri, parole, comportamenti e persino omissioni. Anche il non agire è un modo di incidere sul tessuto della comunità. Per me, come tessitrice e come persona, ogni momento è un atto di creazione, di intreccio che si sviluppa. Nel nostro lavoro ci sono fasi di grande creatività e altre di operosa routine, dove il pensiero può divagare e nutrirsi. Così nella vita, ci sono momenti di bellezza creativa e altri in cui la quotidianità sembra appiattire tutto. Ma dipende da come la viviamo, perché anche la monotonia può diventare fertile, se ci permette di riflettere e generare nuove idee.
Nel mondo della tessitura, la lentezza e la pazienza sono fondamentali e vanno in contrasto con la velocità del mondo moderno. Come vedi questo rapporto tra la lentezza del tuo lavoro e la frenesia della vita quotidiana?
Viviamo in un mondo che ci stordisce e ci rende difficile riflettere. Ho capito l’importanza della lentezza osservando ragazzi delle comunità terapeutiche mentre lavorano il cuoio o curano un orto. È terapeutico, ti permette di recuperare il senso del tempo. La frenesia ci fa saltare passaggi fondamentali e finiamo per sentirci soffocati. Ma per chi o per cosa dobbiamo fare tutto di corsa? Quando insegniamo la tessitura a persone con disabilità, dipendenze o problemi di salute mentale, vediamo che il recupero dei tempi restituisce loro il respiro. Questo vale per tutti, ma le persone più sensibili, quelle che definiamo “fibre di lana”, soffrono particolarmente in un mondo che non offre accoglienza. Se le trattiamo male, si chiudono. Dobbiamo imparare a riconoscere e rispettare ogni fibra.
Per quanto riguarda i materiali, come vengono scelti? In un’epoca in cui la sostenibilità è sempre più importante, è possibile bilanciare la tradizione della tessitura con l’innovazione e la necessità di adattarsi ai tempi moderni?
Sì, cerchiamo di unire tradizione e innovazione. Privilegiamo materiali tradizionali come cotone, lana e canapa, ma utilizziamo anche filati rigenerati, cioè lane prodotte da aziende che lavorano altre rimanenze di lane, rigenerate o di stoffe che sono state macerate e poi filate. Recuperiamo materiali di scarto per creare tessuti, borse e oggetti artistici. Per i laboratori con i bambini usiamo sempre tessuti riciclati. Questo approccio è essenziale per promuovere una visione sostenibile dell’artigianato, che non solo rispetta l’ambiente, ma recupera anche il valore di ciò che altrimenti verrebbe scartato.
Il filo è simbolo di continuità e connessione in molte culture. Pensi che il lavoro artigianale, come la tessitura, possa unire passato, presente e futuro? Questo potrebbe essere il vero senso dell’artigianato?
Sì, l’artigianato è radicato nella tradizione, ma è anche un motore di creatività che ci spinge verso l’innovazione. Il filo, con il suo intreccio, è una metafora perfetta che rappresenta continuità, relazione e connessione. “Fare il filo” significa accettare la fibra che si ha di fronte, rispettarla per ciò che è e lavorare per creare una connessione. Le torsioni che trasformano la fibra in filo simboleggiano le difficoltà e le esperienze che rendono più solide le relazioni. Nella mitologia, il filo è spesso associato alla vita e al destino: da Arianna, che guida Teseo con il suo filo, alle Moire, che tessono e tagliano i fili dell’esistenza. Durante i laboratori, spiego sempre che il filo nasce dalla torsione di fibre intorno a un’anima più forte, unendo elementi diversi in una struttura unica. Lo stesso accade anche con le relazioni, dove il rispetto e l’adattamento reciproco rafforzano i legami, proprio come il filo che tiene insieme i componenti di un tessuto. C’è un detto indiano che dice: “Ciò che facciamo al tessuto, lo facciamo a noi stessi”. Questo pensiero ci ricorda che ognuno di noi è parte integrante di un tessuto più grande. Quando scegliamo di farne parte, contribuiamo alla sua bellezza e armonia, ma se ci isoliamo o ci sfilacciamo, rischiamo di danneggiare l’intera struttura. La consapevolezza di essere un filo tra tanti ci rende responsabili del benessere collettivo. Purtroppo, nella società di oggi prevalgono isolamento e divisione. Spesso consideriamo le diversità o le minoranze come un peso, dimenticando quanto siano fondamentali per la ricchezza e la forza della comunità. Ogni rifiuto, ogni mancanza di accoglienza, equivalgono alla rimozione di una trama o un ordito dal tessuto sociale, rendendolo fragile e incompleto. Il malessere del mondo contemporaneo, fatto di violenze, guerre e allontanamenti, è il risultato di questi vuoti e di questa mancanza di connessione. Siamo tutti fili di un grande tessuto e ogni nostro atto – positivo o negativo – incide sulla sua qualità. È essenziale riscoprire il valore della comunità, accogliendo e valorizzando ogni filo, anche quelli più fragili o diversi. Solo così possiamo creare un tessuto sociale forte, armonioso e capace di affrontare le sfide del presente e del futuro.
Oltre ad aver collaborato con grandi marchi di moda come Valentino, Calvin Klein, Alexander McQueen Alberta Ferretti, Chanel e altri, hai anche preso parte a produzioni cinematografiche come “Il giovane favoloso” di Mario Martone e “Itaca. Il ritorno” di Uberto Pasolini in uscita nelle prossime settimane. Come vivi questa sinergia tra il lavoro artigianale e i mondi della moda e del cinema, che spesso sono sotto i riflettori?
Mi piace moltissimo. Con la mia collega Patrizia Ginesi non abbiamo mai cercato di entrare nel mondo della moda, ma siamo state cercate. Questo mi fa capire che, alla fine, la qualità viene sempre riconosciuta. Alcuni si lamentano perché il nostro sito non è troppo aggiornato, ma chi cerca con attenzione e si ferma a leggere trova ciò che di cui ha bisogno. Spesso, sebbene avremmo potuto sfruttare meglio alcune occasioni, il rispetto che ho trovato nel mondo della moda e del cinema è stato straordinario. Quando ci hanno fatto delle richieste, abbiamo dato le nostre condizioni, ed è stato bello vedere che le idee e i consigli venivano sempre rispettati e accolti, pur dovendo sottostare alle loro tempistiche. C’è una grande differenza tra chi rispetta il lavoro e chi lo sfrutta solo per guadagnare. La firma senza contenuto è solo un contenitore che, prima o poi, si spegne. L’artigianato ha un valore aggiunto, è una fucina di bellezza quando è autentico. Il nostro mestiere è spesso visto solo come lavoro, non come arte. Ma in realtà è una forma d’arte che sta a metà tra il mondo produttivo e quello artistico. Iniziative come quelle a Macerata e Appignano cercano di trasmettere questa esigenza di bellezza, di tempo e nutrimento, che è fondamentale per vivere serenamente.
Come vedi il futuro dell’arte tessile in un mondo sempre più tecnologico? Pensi che possa esserci un connubio tra tradizione e innovazione, o le due cose sono destinate a non coesistere? E se potessi lasciare una ‘trama’ simbolica alle future generazioni, quale sarebbe?
Circa trent’anni fa, un nostro collega tessitore ci disse che non avremmo avuto futuro, che il mondo tecnologico avrebbe soppiantato la tessitura a mano. Eppure, noi siamo ancora qui. Con quasi quarant’anni di esperienza, posso dire che oggi l’interesse per l’arte tessile è molto più vivo rispetto a vent’anni fa, quando la visibilità era decisamente minore. Le richieste per la formazione sono aumentate, così come l’attenzione da parte dei media attraverso programmi come “Linea Verde”, “Sereno Variabile”, “Geo & Geo”, L’Ora solare” o film come “Il giovane favoloso”. Questo dimostra un desiderio crescente nel recuperare e valorizzare il nostro patrimonio artigianale. C’è un fascino speciale nella tessitura che attrae anche i giovani, ma persiste molta incertezza e paura. Vorrei trasmettere la passione per la bellezza e l’autenticità di questa arte. La tessitura non è solo una tradizione, ma un linguaggio che sa innovarsi e che richiede pazienza e dedizione, ma che in cambio dona soddisfazione personale e una profonda connessione con gli altri. È fondamentale educare le persone a riconoscere il valore del lavoro artigianale, perché senza questa consapevolezza rischiamo di perdere un patrimonio culturale unico. La mia speranza è che sempre più giovani trovino il coraggio di intraprendere questa strada, scoprendo nella tessitura non solo un mestiere, ma una forma d’arte capace di arricchire la loro vita. Tuttavia, ci sono ostacoli significativi, primo fra tutti il contesto politico ed economico. Aprire una attività artigianale oggi significa costi sproporzionati rispetto ai guadagni. Le persone, spesso, non sono educate a riconoscere la qualità e tendono a scegliere prodotti meno costosi, anche se di qualità inferiore. Un modo per sostenere l’artigianato è attraverso iniziative mirate. Ad esempio, un comune potrebbe contribuire alle spese di gestione di un laboratorio artigianale, trasformandolo in un luogo di cultura che sopravvive nel tempo. In cambio, l’artigiano potrebbe offrire visite guidate gratuite o attività educative. Ad Appignano siamo riusciti a realizzare questo modello grazie alla collaborazione con il comune. A Macerata, invece, non è stato possibile, ma credo fermamente che queste iniziative rappresentino un investimento prezioso.
A cura di Leonardo Nicolì
FMCFondazione Marche Cultura
Marche Film Commissionper il sostegno al cinema e all’audiovisivo
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